Q&A con Alberto Fiz

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Alberto Fiz mi ha fatto un paio di domande per un articolo poi pubblicato sul Giornale dell’Arte, sull’arte digitale nel mercato dell’arte e sugli effetti della bolla speculativa degli NFT. A seguire il Q&A integrale.

AF. Sto facendo un’inchiesta sul Giornale dell’Arte sulle ragioni secondo cui il mercato dell’arte snobba l’arte digitale nonostante abbia un ruolo sempre più significativo. Tu stesso ne parli nel tuo libro Media, New Media, Postmedia scrivendo: Il mondo della New Media Art si regge su un’economia che non prevede nel suo sistema di distribuzione un mercato dell’arte.” In che senso? Pensi che ci possa essere un sistema di mercato alternativo?

DQ. Media, New Media, Postmedia è stato pubblicato per la prima volta nel 2010, alla fine di un decennio di cauta apertura del mondo dell’arte contemporanea all’arte digitale, e poco prima del momento “post internet”, che avrebbe visto il trionfo di mercato di pratiche artistiche che si radicano nei linguaggi e nella cultura digitale, ma assumono prevalentemente forme fisiche, “amichevoli” in relazione alle esigenze del white cube e alle dinamiche del mercato. A distanza di 14 anni, è importante situarlo se si vogliono comprendere le ragioni della sua persistente attualità.

Nel libro, il “mondo della New Media Art” è descritto come un’entità relativa, non assoluta: ossia come l’esito di un processo storico che ha portato la ricerca artistica sui nuovi media a isolarsi in un sistema espositivo e discorsivo parallelo al mondo dell’arte contemporanea, e che si regge su media center come lo ZKM di Karlsruhe o il Fact di Liverpool, festival come Ars Electronica o Transmediale, riviste come Leonardo ecc. Quel sistema, che tra anni Settanta e primi anni Novanta è stato il luogo pressoché esclusivo di manifestazione della New Media Art (e il luogo di messa a punto della sua definizione) si reggeva e si regge su una economia della fruizione più che su una economia di mercato. Questo è il senso della frase che citi.

Dalla metà degli anni Novanta, le cose cominciano a cambiare. Complici l’impatto generalizzato delle tecnologie digitali e il nuovo approccio alle tecnologie introdotto dalla Net Art, queste pratiche artistiche cominciano a risvegliare un crescente interesse nel mondo dell’arte, prima in ambito istituzionale e critico, e poi nel mondo delle gallerie e dei collezionisti. Fatti i conti con la storia, il mio libro parlava di questo, e si faceva portavoce di un sentire ormai diffuso, fondato sulla necessità di inaugurare un nuovo approccio all’arte digitale – la prospettiva “postmediale” – che insistesse meno sulla specificità mediale e più sulla centralità culturale dei nuovi media e sull’ibridazione di forme e linguaggi. Il post internet si è poco dopo fatto carico di queste necessità, diventando a tutti gli effetti un fenomeno di mercato. Sebbene, in quanto tale, il post internet abbia avuto anche i suoi aspetti critici, i suoi meriti sono indiscutibili: ha introdotto i temi e i linguaggi dell’arte digitale nelle gallerie, nei musei, nelle riviste d’arte e nelle collezioni, aprendo la strada anche alla commercializzazione delle sue forme più difficili.

In conclusione: io non credo affatto che il mercato dell’arte, oggi, snobbi l’arte digitale. È assolutamente prevedibile, e oserei dire sensato, che un mercato che si fonda sulla commercializzazione di artefatti preziosi, unici o rari, abbia più facilità a commercializzare un quadro o una scultura, rispetto a un sito web o a un file digitale. Questa situazione generale non può cambiare e non cambierà, per la stessa ragione per cui il mercato di Duchamp è ridicolmente più striminziti di quello di Picasso, a dispetto della rilevanza culturale di entrambi. E tuttavia, oggi, i file digitali si vendono, e c’è un numero crescente di buoni (e cattivi) artisti digitali che lavorano con gallerie più o meno prestigiose, e vantano lavori in collezioni pubbliche e private.

AF. Credo che il fuoco di paglia degli NFT sia stato altamente negativo per l’arte digitale. Mi farebbe piacere avere una tua opinione anche breve su tutto questo.

DQ. Personalmente, quando guardo agli NFT non riesco a vedere tutto nero. Ci sono ombre, ma anche luci. Credo che la conseguenza più negativa del fenomeno sia stata la confusione classificatoria che ha introdotto, inducendoci a pensare che l’arte digitale fosse quello che dicevano i cripto-investitori e che producevano gli “artisti” baciati dalla loro benevolenza. Molta di questa presunta arte sparirà senza possibilità di redenzione, come è giusto che sia. Sicuramente, anche lo stretto legame del mercato NFT con le fluttuazioni delle criptovalute e il modo in cui il mercato degli NFT ha adottato e accelerato alcune dinamiche del mercato dell’arte nelle sue manifestazioni più deteriori (come il flipping) non hanno fatto bene all’arte.

Tuttavia, non dimentichiamo che a produrre cambiamenti reali non sono le bolle inflazionistiche, ma le trasformazioni strutturali. Il boom degli NFT ha posto con una forza e un’estensione senza precedenti il problema della possibilità di una scarsità e di una proprietà digitale: le soluzioni attuali possono anche essere temporanee e piene di difetti, ma se le blockchain riusciranno davvero a costituire il fondamento di una trasformazione strutturale della rete, e a svincolare il proprio destino da quello delle criptovalute, quello che abbiamo discusso in questi anni potrebbe tornarci utile in futuro. Se gli anni del boom si sono fondati sulla promessa dell’eliminazione degli intermediari (gallerie, curatori, musei) e del successo per tutti, quelli del “dopo boom” stanno dando vita a un ecosistema variegato e complesso, in cui intervengono musei, istituzioni con una solida reputazione, gallerie e curatori con una presenza nel mondo dell’arte tradizionale. Personalmente, ritengo che saranno più le esperienze sottotraccia di questo periodo, più che le notizie clamorose degli anni del boom, a lasciare un segno persistente sulla storia presente e futura dell’arte digitale.