Superblast

Texts

Nato dall’omonimo bando internazionale ispirato al ripensamento del rapporto tra uomo e ambiente, individuo e comunità, natura e cultura, il libro SUPERBLAST è il risultato editoriale di un processo sperimentale che vede la commissione del pensiero critico e lavoro artistico all’interno di un unico progetto. Ogni artista, infatti, è stato accompagnato da un autore che ha sviluppato un testo partendo da un particolare elemento dell’opera. Abbandonando la forma del tradizionale catalogo della mostra, il libro – curato e pubblicato da NERO – è il risultato del dialogo e dello scambio tra Bianca Felicori, Xenia Chiaramonte, Tommaso Guariento, Riccardo Papacci, Antonio Perazzi e Domenico Quaranta e Edoardo Aruta, Antonio Bermúdez Obregón, Federica Di Pietrantonio, IPERCOLLETTIVO, Oliviero Fiorenzi e Violette Maillard. La pubblicazione, che unisce materiale di ricerca, documentazione fotografica, narrazione ed esplorazione teorica, riflette l’inafferrabilità del tema indagato da SUPERBLAST, restituendo un’istantanea fluida dello stato della situazione attuale attraverso il pensiero di intellettuali, critici e artisti.

Federica Di Pietrantonio, Not So Far Away, 2021

Io ho partecipato con un testo sulla videoinstallazione Not So Far Away, di Federica Di Pietrantonio. Nel testo rifletto sul potenziale immersivo delle simulazioni, e sullo spazio di gioco come manifestazione della wilderness contemporanea. Qui sotto ne propongo un breve estratto.

Domenico Quaranta, “The Same, But Not Quite the Same”, in VVAA, Superblast, Roma, NERO 2021, 136 pp., ISBN: 978-88-8056-148-4. pp. 46 – 58.

Il cinema, com’è noto, trasforma le immagini mentali generate dalla lettura in immagini esternalizzate, in una finzione di realtà in cui possiamo tuffarci per tutto il tempo della fruizione, e a cui possiamo tornare con la memoria. I videogiochi e le realtà virtuali immersive li convertono in spazi di vita e di azione, da cui la realtà esterna è temporaneamente esclusa e in cui ci immergiamo, per lo più in prima persona, adottando il punto di vista del personaggio principale. Il designer e ricercatore Gordon Calleja propone di sostituire il termine “immersione” con “incorporazione” (incorporation), spiegando:

“L’incorporazione opera… su un doppio asse: il giocatore incorpora (nel senso che interiorizza o assimila) l’ambiente di gioco nella coscienza e contemporaneamente viene incorporato in quell’ambiente attraverso l’avatar. Detto altrimenti, l’incorporazione avviene quando il mondo di gioco è presente al giocatore mentre il giocatore è contemporaneamente presente, attraverso l’avatar, all’ambiente virtuale.” (p. 169)

Consideriamo brevemente entrambi gli assi di questo processo. Assimilare l’ambiente di gioco nella coscienza significa farne, per la durata dell’esperienza, la propria realtà: interiorizzarne la storia, il ritmo, ma anche l’atmosfera, la tessitura del mondo simulato dal gioco. È a seguito di questa interiorizzazione che possiamo cogliere i segnali di allerta o di pericolo, così come distinguere quei segnali, interni (un glitch, un momento di freeze del rendering) o esterni (una voce che chiama, il campanello che suona), che incrinano la realtà del gioco. In questo processo, il realismo della simulazione è importante, ma non decisivo. L’estetica del gioco può avere una sua evidenza, può affascinarci o turbarci, in una fase iniziale, prima che inizi il processo di incorporation; ma la sua presenza cosciente si dissolve a processo compiuto. L’ambiente di gioco diventa la nostra nuova realtà, il nostro nuovo metro di misura. Succede lo stesso quando si viaggia: frequentato abbastanza a lungo, un ambiente che all’inizio ci appare stucchevole, o esotico, o pittoresco diventa normale, al punto che a volte finiscono per disturbarci, per sembrare fuori luogo, aspetti normali della realtà da cui proveniamo.

Una volta assimilato, lo spazio di gioco diventa spazio potenziale della memoria, dell’inconscio, del sogno. Diventa un luogo in cui siamo stati, dove abbiamo vissuto storie che possiamo raccontare, dove abbiamo fatto incontri che estendono il raggio delle nostre relazioni sociali. Il secondo asse prevede l’incorporazione del giocatore nell’ambiente, mediato dall’avatar. L’ambiente di gioco ci avvolge, come gli alberi di una foresta. Se il nostro avatar cammina, siamo noi a camminare. Se il nostro avatar nuota, siamo noi a nuotare.

Perché questo secondo aspetto dell’incorporazione si compia, è decisivo che l’ambiente di gioco esista al di là della sua funzione, si conceda a noi in modi che vanno al di là della semplice azione di gioco. Nella realtà, spesso percorriamo il mondo in maniera funzionale, secondo tracciati predefiniti: usciamo di casa per andare a scuola, in ufficio, al bar dell’angolo, facendo spesso lo stesso percorso. Ma se un giorno, per caso, decidiamo di deviare da questo tracciato, il mondo reale si concede sempre alle nostre derive, alle nostre esplorazioni, al vagare senza scopo, come una realtà piena e compiuta. Nel film The Truman Show (Peter Weir, 1998), il cui protagonista vive dalla nascita in una simulazione televisiva, il senso di realtà di Truman si incrina quando si rende conto di non essere libero di deviare dal suo tracciato, dalla missione di gioco: entrando inaspettatamente in un edificio che esiste solo come scenario, come facciata, si imbatte in un set in costruzione. I primi videogame in 3D costruivano una realtà che era funzionale all’immersione nei limiti dell’azione di gioco. Nell’ormai classico intervento retroyou_RC – FCK the Gravity CODE (1999), l’artista spagnolo Joan Leandre manipola il parametro della gravità in un gioco di corse di macchinine giocattolo: quando la corsa parte, le automobili si alzano in volo, mostrandoci una mappa limitata a quanto potevamo intravedere, in velocità, dal livello della strada, sospesa nel vuoto azzurro del cielo.

Non essendo più costretti alla stessa limitazione di risorse computazionali, gli ambienti virtuali di oggi si offrono pienamente all’esplorazione. Il limite si è esteso in maniera indefinita, e quando anche lo raggiungiamo ricorre a soluzioni più ingegnose per ingannarci. Per certi versi, potremmo dire che l’esplorazione del mondo è diventata una seconda missione di gioco, in grado di intrattenerci nelle pause dell’azione o di procrastinare l’abbandono a missione compiuta.