Per la sua rubrica Cosmotaxi, Armando Adolgiso ha rivolto a me e a Valentino Catricalà qualche domanda sul libro Sopravvivenza programmata (Roma, Kappabit 2020). Il botta e risposta lo trovate qui sotto. Qui il pezzo originale.
Come nasce questo libro?
Quaranta – Nel 2016 l’Accademia di Belle Arti di Carrara, dove insegno, mi diede l’opportunità di organizzare una tavola rotonda di una giornata sulla conservazione dei nuovi media. Discutendone con l’allora direttrice Lucilla Meloni, decidemmo di mantenere uno spettro ampio, sia in termini cronologici – coprendo un arco che va dalla conservazione dell’arte programmata alle più recenti pratiche di arte in rete – sia in termini tematici e metodologici. Abbiamo discusso di teorie del restauro e di pratiche conservative, di opere d’arte e di archivi, di conservazione e di re-enactment. Non si pensava di raccogliere gli atti e fare una pubblicazione, ma evidentemente l’assenza assoluta di un dibattito critico e di pubblicazioni in lingua italiana su questo argomento era l’elefante nella stanza. Valentino Catricalà, uno dei relatori della giornata, ha avuto il grande merito di puntare il dito, e, nei mesi successivi, di darsi da fare per trovare un editore sensibile a queste tematiche, che abbiamo individuato in Kappabit di Marco Contini. Da quel momento è stata una strada in discesa, seppur con numerosi ostacoli. All’idea iniziale di raccogliere i contributi della giornata si è affiancata l’urgenza di tradurre in italiano alcuni testi seminali sulla conservazione delle nuove tecnologie, come l’intervento di Jon Ippolito (figura determinante per l’avvio del dibattito sulla conservazione dei “media variabili” in ambito museale nei primi anni Duemila) o quello più recente dell’artista Rafael Lozano-Hemmer, una sorta di tutorial su come l’arte digitale possa essere “preparata” per la conservazione; e la necessità, altrettanto urgente, di commissionare nuovi testi a pionieri e esperti internazionali.
Il libro rimarca il ritardo in Italia – a differenza di altri paesi, ad esempio Gran Bretagna, Stati Uniti, Olanda, Giappone – sul tema della conservazione delle arti digitali. Quale la causa culturale che da noi determina questa arretratezza ?
Quaranta – Più che da una singola causa, l’arretratezza italiana su questo fronte dipende da una serie di concause. Senza nemmeno arrivare alla solita lagna relativa al passato ingombrante che sottrae attenzione e finanziamenti al contemporaneo, vorrei puntare l’attenzione su due fatti importanti.
Da un lato, l’Italia non è mai stata in grado di dare stabilità a una scena locale della media art estremamente vivace e attiva. I festival, che in altri paesi sono diventati appuntamenti fissi e imprescindibili, in Italia hanno avuto vicende brevi e travagliate; la formula del media art center non ha mai attecchito. Se sulla loro necessità attuale potremmo discutere, è però indiscutibile che tra gli anni Ottanta e primi anni duemila siano stati gli eventi e i centri specializzati a sostenere delle pratiche creative che opponevano resistenza o avevano difficoltà ad adeguarsi al modello economico del mondo dell’arte contemporanea, e a dare forma a una cultura e a una sensibilità di cui oggi il mondo dell’arte in senso lato può beneficiare.
Su un altro fronte, tanto a livello istituzionale quanto a livello discorsivo, anche l’attenzione del mondo dell’arte contemporanea italiano per la media art si è rivelato frammentario, discontinuo e tardivo. In Europa e negli Stati Uniti, i musei di arte contemporanea hanno cominciato ad aprire posizioni di “media art curator” sin dai tardi anni Novanta. Organizzando mostre, commissionando lavori, acquisendo opere per la collezione permanente, questi curatori hanno creato le premesse perché i musei cominciassero a interrogarsi su come conservare quanto avevano acquistato. Fino a che non c’è collezionismo, la “conservazione del digitale” è una pura questione teorica. E fino a che non ci sono casi studio, anche la formazione e la ricerca non trovano appigli per evolvere. Mi è capitato di insegnare storia dell’arte contemporanea in un corso di restauro del contemporaneo, e quando portavo la discussione sulla conservazione delle nuove tecnologie, gli studenti non avevano né metodologie a cui aggrapparsi, né esempi con cui confrontarsi.
Nel sottotitolo del volume oltre a “pratiche della conservazione” c’è un richiamo alle “etiche” della stessa. A quali norme si riferisce la sostanza di quel plurale?
Catricalà – Il restauro non è materia esclusivamente tecnica, non è solo una questione di pratiche. Non esiste pratica del restauro senza un’etica, senza delle linee di comportamento più o meno specifiche: capire ciò che, secondo una visione condivisa da una determinata società, sia l’atteggiamento buono, giusto e lecito da intraprendere. Da qui, dunque, la domanda da cui siamo partiti è stata: quali sono le nuove etiche che regolano la conservazione delle opere realizzate con tecnologie? Il punto è che quando si parla di rapporto arte e media si entra in un livello diverso di complessità (tecnologica, non poetica). Utilizzare media complessi, come oggi il computer o lo smartphone, vuol dire aprire la pratica artistica a nuovi ambiti come quello dell’innovazione e della scienza, aprirsi a nuove collaborazioni con società tecnologiche e dipartimenti scientifici, lavorare in team con ingegneri e tecnici; infiltrarsi, dunque, in nuovi settori ben strutturati economicamente e utilizzare media pensati per usi sociali non artistici. Ambiti completamente nuovi per la storia dell’arte e del restauro che implicano, in primis, la ricerca di una nuova etica.