
Domenico Quaranta, “Macon Heights. Maurizio Cattelan ed Eva & Franco Mattes”, in Flash Art Italia, “Agenda 2025”, pp. 129-136
The following text was commissioned by Flash Art Italia for a special issue called “Agenda 2025”. The paper issue is damn good, but if you just want to read or run some words into an automatic translation machine, here is my text…
In un celebre racconto del 1953 di Philip K. Dick,1 Macon Heights – un piccolo agglomerato urbano ipotizzato sette anni prima, ma poi bocciato da una votazione – comincia misteriosamente e spontaneamente a esistere. La transizione tra i due livelli di realtà – quello in cui Macon Heights è un’idea perduta nel passato, e quello in cui esiste – manifesta delle smagliature, e Bob Paine se ne accorge. Preoccupato che questa alterazione minima del flusso temporale abbia ripercussioni sull’intero tessuto del reale, Bob torna a casa. Prima di entrare riflette, in un lampo di lucidità: «Il passato stava mutando e la sua memoria era legata al passato. Come poteva fidarsi della memoria?» Non può: superata la soglia, la sua realtà è già cambiata, ma per lui è quella di sempre.

La magia del racconto non consiste tanto in questa trama sgangherata, quanto nel fatto che nemmeno la voce narrante in terza persona, che fino alla fine ha interpretato il ruolo del narratore onnisciente, sembra comprendere quanto è accaduto. La consapevolezza è solo del lettore, e ovviamente di Dick, l’invisibile prestigiatore che si nasconde dietro una voce narrante che è, a sua volta, finzione narrativa.
Ho sempre avvertito una strana familiarità tra Macon Heights e alcune opere di Maurizio Cattelan e di Eva & Franco Mattes. Entrambi sembrano condividere con Dick non solo la capacità di rendere attuale un’idea già esistente in forma latente, ma anche di alterare la realtà in modo tale che si adatti ai nuovi confini dell’idea finalmente realizzata. Sono bugie che creano una realtà parallela, come dice Momus nella copertina di The Book of Scotlands: «Every lie creates a parallel world. The world in which it is true»2; o sono ucronie, possibilità non realizzate che, quando si manifestano nella realtà, cambiano il passato, come direbbe Emmanuel Carrère.3
Sarà per questo che, la prima volta che ho scritto del lavoro di Cattelan, l’ho fatto su sollecitazione dei Mattes. Era il 2012, Cattelan stava per chiudere All – la sua retrospettiva al Guggenheim di New York – e i Mattes avevano da poco realizzato Catt (2010), la prima di una serie di sculture ispirate da un meme di internet, temporaneamente attribuita proprio a Cattelan. Catt è un esempio paradigmatico di opera “Macon Heights”. Il gatto tassidermizzato imprigionato nella gabbietta di un canarino che lo osserva trionfante da sopra la gabbia è, nella narrativa dei Mattes, l’esito di una scommessa volta a dimostrare che c’è più inventiva ed energia creativa nelle immagini della rete che in quelle dell’arte; ma anche un esempio di appropriazione identitaria, che crea un Cattelan verosimile ma non vero, attraverso il riutilizzo del suo linguaggio e dei suoi temi (il fallimento, la fuga). Ma a distanza di quindici anni, queste sovrastrutture narrative sfumano a vantaggio di un’altra interpretazione, che fa di Catt la riuscita alterazione della vita di un significante, in questo caso il meme originario, nel tempo. I Mattes si appropriano di un’immagine forte eppure fragile, perché orfana, senza autore, povera, fluida, smaterializzata, soggetta ai capricci della memoria sia individuale che collettiva, e a dinamiche più simili a quelle dell’oralità che a quelle della scrittura. A questa immagine latente attribuiscono un autore, una materialità, nuovi motivi per sopravvivere. Mettendola in relazione con altri immaginari, ovvero il corpus di opere di Cattelan, le conferiscono nuovi significati: non è più solo un joke, uno scherzo estemporaneo, un’immagine relatable, una reazione o una battuta (Epic Fail!), ma si arricchisce di sfumature esistenziali, diventa più densa, più persistente, più reale. Questa alterazione nella vita di un’immagine che nel 2025 nessuno avrebbe altrimenti più ragione di ricordare altera, inevitabilmente, anche la realtà stessa attorno all’immagine.
Ebbene: studiando Cattelan, i Mattes si erano resi conto che il suo lavoro funziona spesso nello stesso modo. Approfondii la ricerca,4 scovando, tanto nella sua opera quanto nelle immagini prodotte per Toilet Paper, parecchie interferenze con le immagini anonime e l’immaginario collettivo di internet. Le opere “Macon Heights”, tuttavia, non si appropriano sempre necessariamente di un’immagine precisa. La loro caratteristica principale è quella di procedere per intensificazione, per consolidamento di qualcosa che esiste sottotraccia, e che entra a far parte dell’immaginario collettivo attraverso la loro mediazione. Il punto di partenza può essere un’immagine trovata, come i gatti tassidermizzati dei Mattes e il cavallo di Untitled (2009) di Cattelan; l’opera di un altro artista, con i conseguenti malumori e le accuse di appropriazionismo; una pratica comportamentale, un costume sociale, un tropo visuale, un’estetica vernacolare; il riempirsi la bocca di qualsiasi oggetto o lo scrivere sui denti nel lavoro di Cattelan; i reaction video, le performance virali sui social media, i make-up tutorial o i bot delle applicazioni “text to video” nei lavori dei Mattes.
In alcuni casi particolari, infine, l’immagine non ha una derivazione o una paternità precisa, ma è frutto della condensazione di una nebulosa di riferimenti e di stimoli; quando appare sembra avere una propria necessità o inevitabilità; incontrandola non la scopriamo, ma la riconosciamo, come se ci fosse sempre stata. È il falso artista Darko Maver (1998-99) di Eva & Franco Mattes con la sua opera radicale e maledetta; è il monumento alla Nike (Nike Ground, 2003), l’impiccato di No Fun (2010), l’Hitler inginocchiato (Him, 2001) e il Wojtyla colpito dal meteorite (La Nona Ora, 1999). Ed è, ovviamente, il commediante per antonomasia, la banana (Comedian, 2019) tanto indifesa quanto vorace, tanto banale quanto capace di fagocitare come un buco nero una rete fittissima di riferimenti intertestuali, vacua eppure in grado di riempirsi di qualunque cosa le sia successa attorno a partire dalla sua apparizione: i selfie, i remix, le parodie, le pubblicità, i commenti, gli insulti, chi la compra e chi la mangia, chi ne fa una criptovaluta e chi investe sei milioni in criptovalute per rivendicarne la proprietà. Non c’era, ma ora c’è, e non possiamo più essere sicuri che tutto quello che ci ricorda non converga, da sempre, verso questo segno irriverente e buffonesco.
1 Philip K. Dick, “The Commuter”, in Amazing Stories, August-September 1953, pp. 140-151.
2 Momus, Solutions 11-167. The Book of Scotlands, Sternberg Press, Berlin 2009.
3 Emmanuel Carrère, Le Détroit de Behring. Introduction à l’uchronie, P.O.L éditeur, Paris 1986, Ucronia, Adelphi, Milano 2024.
4 Domenico Quaranta, “When an Image Becomes a Work. Premesse a un’iconografia di Cattelan”, in Flash Art Online, January 25, 2012. https://flash—art.it/2012/01/when-an-image-becomes-a-work-premesse-a-uniconografia-di-cattelan-1/.