“Oggi… computer e smartphone sono presenze ubique e centrali nelle vite di gran parte della popolazione; sono allo stesso tempo strumenti di lavoro, apprendimento, creazione, intrattenimento e comunicazione interpersonale. In questo quadro, naturalmente, non fanno eccezione gli artisti. E se tutti, indipendentemente dal medium d’elezione, si sono trovati a inserire una quota di screen-time nella routine quotidiana, per altri invece lo spazio dello schermo è diventato un prolungamento dello studio fisico, quando non la sua unica incarnazione. ” Valentina Tanni scrive di Studio Visit su Artribune, in un pezzo che include anche alcuni frammenti di un dialogo che abbiamo avuto via email. Lo includo in forma integrale qui sotto, a beneficio degli storici del futuro (❁´◡`❁)
Come è nato il progetto?
Vivere con un artista ti offre un’opportunità unica di accedere al suo lavoro mentre si forma. Mi capita spesso di sedere alle spalle di Kamilia mentre lavora al computer, e di seguire imbambolato i movimenti del cursore mentre prende una sfera e la trasforma in un busto di donna. Guardandola, capisco molte cose sul suo lavoro, sul modo in cui nasce, sulla necessità che lo genera, sulle ragioni di alcune scelte tematiche o formali, concettuali o estetiche. Guardandola, mi capita spesso di pensare a quanto sia, in realtà, superficiale e imprecisa la mia conoscenza e comprensione del lavoro di artisti che amo, ma che non ho mai avuto il privilegio di spiare da dietro le spalle.
Concettualmente, Studio Visit nasce da qui: dal desiderio di essere il testimone discreto di un atto creativo e dalla volontà di condividere questo piacere con altri. Di aprire una possibilità di documentazione e di studio di una prassi creativa tanto diffusa quanto invisibile, perché raramente documentata.
Questa vaga intuizione ha preso una forma più definita quando Andrea Bellini, qualche mese fa, mi ha contattato per chiedermi un progetto per 5th Floor, lo spazio online del Centre d’Art Contemporain di Ginevra. La piattaforma veicola prevalentemente contenuti audio e video, e il budget disponibile si prestava più alla presentazione di lavori esistenti che alla produzione di lavori nuovi. Studio Visit si adattava bene a questi vincoli (una volta che hai capito il concept e hai individuato il momento, si tratta solo di premere “record” e continuare a fare quello che già stai facendo); e mi consentiva di dire – o meglio, di far dire – qualcosa di inedito sul lockdown, sul lavoro (tema centrale in Hyperemployment), sul desktop come ambiente e come specchio, sulla temporalità delle interfacce e sulla pratica artistica.
Come hai scelto gli artisti?
In futuro mi piacerebbe usare lo stesso format per proporre delle mostre tematiche, o per indagare una scena, un gruppo, una generazione. In questo caso, dovendo prima di tutto lanciare il format, mi sono affidato a scelte più idiosincratiche e personali. Alcuni artisti selezionati avevano già fatto qualcosa di simile, e sapevo di poter trovare in loro degli interlocutori consapevoli e interessati. Alcuni li seguo da tempo, ed ero intrigato dalla possibilità di instaurare con loro questo contatto più personale, questo punto di vista più intimo; altri sono nuove fiamme. Insisto con questo registro erotico perchè, per quanto fredda e impersonale possa sembrare la modalità di documentazione (lo screen recording), per quanto distaccato, lento e noioso possa rivelarsi l’output (un video senza voce di accompagnamento, senza il volto dell’artista, senza editing e taglio dei tempi morti, delle esitazioni e dei ripensamenti), Studio Visit tenta davvero di portarci, per qualche minuto, in uno spazio-tempo condiviso solo con l’artista. Il minimo di entertainment corrisponde qui al massimo di contatto.
Cosa ti aspetti dall’esperienza?
Mi piacerebbe trasformare questo piccolo esperimento in un format e in un archivio in progress in cui raccogliere un numero crescente di testimonianze, capsule temporali destinate, a mio parere, ad acquisire valore e interesse con la distanza.