Curato da Marco Mancuso ed edito da Mimesis, Intervista con la New Media Art. L’osservatorio Digicult tra arte, design e cultura digitale è uno straordinario strumento di navigazione e di comprensione della pratica artistica contemporanea nel rapporto con la tecnologia e la ricerca scientifica a partire dall’esperienza dell’osservatorio Digicult. 486 pagine, il libro raccoglie testi critici e interviste di una quarantina di autori internazionali, e segue gli sviluppi della media art dal 2005 ad oggi. Ho avuto il piacere di contribuirvi con una vecchia ma ancora fresca intervista a UBERMORGEN (online qui) e l’onore di introdurre la sezione finale del volume, Culture e mercati. Qui di seguito trovate il mio contributo:
Domenico Quaranta, “Capitolo 10: Culture e mercati – Introduzione”, in Marco Mancuso (a cura di), Intervista con la New Media Art. L’osservatorio Digicult tra arte, design e cultura digitale, Mimesis, Milano 2020, ISBN 9788857569444, pp. 413 – 418
In un testo del 20161, il teorico dei media Jeoff Cox e il filosofo Jacob Lund affrontano la caleidoscopica nozione di “contemporaneo” e di “condizione contemporanea” mescolando vari punti di vista e approcci disciplinari. Il contemporaneo, secondo Cox e Lund, non è solo una categoria temporale (il tempo in cui viviamo), ma anche una categoria esperienziale, che identifica la nostra attuale relazione con il tempo, la storia e il futuro. Frutto di una globalizzazione accelerata, della diffusione del neoliberalismo e dell’influenza delle tecnologie dell’informazione, l’attuale versione del contemporaneo si differenzia da quella dei decenni precedenti. Il contemporaneo attuale vede una coesistenza e un intreccio di temporalità distinte, un “presente espanso” caratterizzato dall’estrema compressione spazio-temporale e dal costante senso di dislocazione prodotti da internet, e dall’esperienza del “near real-time” prodotta dall’interferenza tra il nostro modo di percepire il tempo e il modo in cui lo computano le tecnologie informatiche.
Le tecnologie dell’informazione, secondo Lund e Cox, non influenzano solo la nostra percezione del tempo, ma l’intero processo di costruzione e rappresentazione del contemporaneo: fornendo l’infrastruttura e i mezzi per processi come l’esteriorizzazione della nostra coscienza e per la circolazione delle immagini. Le tecnologie dell’informazione sono, in altre parole, l’ambiente del contemporaneo:
“la nostra idea di contemporaneità si costruisce su un’idea di media intesi non solo come strumenti di comunicazione e come entità puramente tecniche, ma anche come ambienti in cui le forme di vita si sviluppano.”2
L’idea di contemporaneo di Lund e Cox è condivisa dalla curatrice e teorica Ceci Moss, secondo cui l’arte esiste oggi come forma espansa in un “informational milieu”, e in un “flusso costante tra dati in rete e materiali fisici.” Un’opera d’arte espansa accetta la sua natura di oggetto “in evoluzione nel suo stato di connessione, negoziando costantemente i diversi supporti che rendono possibile il suo movimento […] riproduce, viaggia e accelera attraverso diversi spazi e forme, ricostruendosi costantemente – circolando, assemblando e disperdendosi.”3
A questa forma del contemporaneo ci siamo arrivati per gradi, nel corso degli ultimi vent’anni, mano a mano che la cultura digitale evolveva da cultura di nicchia a cultura di massa, e con un “effetto di massa”4 sul nostro modo di vivere il presente. La selezione di testi che segue si apre nel 2007, con un’intervista ad Andreas Broeckmann, allora direttore uscente – dopo ben sette anni – del festival transmediale di Berlino. Fondato nel 1988 col nome VideoFilmFest nella cornice del festival Berlinale, nel corso degli anni novanta il festival diventa progressivamente una piattaforma riconosciuta per la media art, cambiando il suo nome in transmedia nel 1997 e transmediale nel 1998. Nel 2006, transmediale cambia il suo sottotitolo da “international media art festival” a “festival for art and digital culture”, descrizione che mantiene tutt’ora. Questa scelta programmatica – l’abbandono dell’etichetta “media art” a favore di un più vago riferimento al binomio “arte e cultura digitale” – viene sottolineata nell’edizione 2007 con l’organizzazione di un panel intitolato “Media Art Undone”. “È tempo di liberarsi della definizione di media art, e di battersi per una ricontestualizzazione delle pratiche di arte basate sui media nei più ampi discorsi sull’arte?”, è la domanda cruciale a cui il panel cerca di rispondere5. Nell’intervista che segue, Andreas Broeckmann lo commenta così:
“Nei festival transmediale degli ultimi anni, abbiamo tentato di trovare un buon equilibrio tra cultura digitale e arte. La relazione tra le due è problematica perché, per molto tempo, l’intero campo è stato totalmente marginalizzato, e artisti, attivisti, teorici, curatori, chiunque facesse cose con i ‘new media’, costituivano un gruppo coeso. Ora la cultura digitale sta diventando una condizione generale della vita contemporanea, quella scena si va differenziando, e le persone devono dolorosamente rendersi conto che quel grande ‘noi’ della scena della media art potrebbe scomparire.”
Retrospettivamente, credo non sia esagerato sostenere che questa tavola rotonda abbia costituito un momento capitale nella storia recente della media art e dell’arte contemporanea in generale, per la sua capacità di riassumere, mettere a fuoco e coronare emblematicamente, un processo avviato nel decennio precedente e concluso nel decennio successivo: il graduale dissolvimento della media art come pratica identificabile e come comunità, e il suo progressivo assorbimento in un più ampio orizzonte del “contemporaneo”.
Come è noto, la media art come pratica e come linguaggio si sviluppa tra anni sessanta e anni novanta del Novecento, in parallelo alla progressiva affermazione del computer, del software e delle reti telematiche. Nel corso di questo trentennio, nonostante il notevole impatto delle tecnologie digitali a livello infrastrutturale, la relativa inaccessibilità – economica e tecnica – dei linguaggi informatici e la correlata inaccessibilità culturale della teoria dei media e della cultura digitale fanno si che attorno alla media art si strutturi una comunità di riferimento, una nicchia produttiva, distributiva e discorsiva (il grande “noi” di cui parla Broeckmann) che vive il proprio isolamento dall’arte e dalla cultura mainstream insieme come un esilio forzato e una separazione voluta, una condanna e un privilegio. I tardi anni novanta, con l’esplosione della consumer technology e di internet e il crescente impatto del digitale sulla cultura e sulla società, insieme consolidano questa separazione e questa presa di coscienza identitaria (come dimostrato dal proliferare di festival, pubblicazioni, piattaforme discorsive dedicate e media center); e pongono le premesse per la sua crisi e il suo superamento.
Questa crisi giunge a un primo livello di maturazione verso la metà degli anni Zero, quando, dice Broeckmann, la cultura digitale diventa “una condizione generale della vita contemporanea”. Che senso ha mantenere una nicchia discorsiva quando ciò di cui si occupa appartiene ormai a tutti? Che senso ha fondare una categoria artistica su una distinzione di medium, quando l’evoluzione digitale sta trasformando e pervadendo ogni aspetto della vita, della società e della cultura, e abbattendo di fatto ogni distinzione tra i media? Che senso ha considerarsi una comunità separata, quando il digitale ha sempre meno problemi a manifestarsi nello spazio fisico, e quando i suoi temi e le sue estetiche trovano sempre più riscontro nel lavoro di artisti afferenti ad ambiti disciplinari differenti? Come dice l’artista Olia Lialina durante “Media Art Undone”:
“Ieri per me come artista aveva senso solo rivolgermi alle persone davanti ai loro computer; oggi posso facilmente immaginare di rivolgermi ai visitatori di una galleria, perché in gran parte si sono appena alzati dai loro computer. Hanno l’esperienza e la comprensione del mezzo necessarie per comprendere le idee e i riferimenti ironici, per godersi i lavori e comprarli.”6
Ma ovviamente la “condizione generale” nel 2007 non è quella del 2020. Facebook, allora un “piccolo” social network con circa cento milioni di registrati, conta oggi due miliardi e mezzo di utenti attivi su base mensile.7 Il numero delle connessioni mobili ha ormai superato quello della popolazione mondiale.8 Oggi, la cultura digitale non sta diventando: è diventata la condizione generale della vita contemporanea.
Allo stesso modo, il pubblico della galleria a cui si rivolge Lialina non coincide ancora con il mondo dell’arte mainstream. Nel 2007, il superamento della media art, più che una realtà, è la volontà di una parte (forse nemmeno maggioritaria) della sua comunità di riferimento, quella che si riconosce nel cambio di sottotitolo di transmediale. Nel corso del decennio successivo, le teorie del postmediale e del post-digital, e il fenomeno (culturale e di mercato) del post internet renderanno sempre più concreta questa dichiarazione d’intenti, sullo sfondo di una progressiva e totale identificazione tra cultura digitale e cultura tout court.
Arriviamo così al 2012, e a quello che ritengo, dopo “Media Art Undone”, essere il secondo turning point in questa vicenda: “Digital Divide”, l’articolo pubblicato da Claire Bishop su Artforum, in un numero monografico dedicato al tema “Art’s New Media”.9 All’epoca l’articolo di Bishop, che si interrogava sul perché l’arte contemporanea mainstream, “nel linguaggio e nei contenuti”, si fosse “rivelata curiosamente incapace di rispondere al radicale sconvolgimento prodotto dalla rivoluzione digitale in tutte le nostre attività di lavoro e di svago”, fu accolto con forte risentimento dalla “new media community”, e accusato di ignoranza e di incapacità di leggere i segnali di una trasformazione in corso. Retrospettivamente, dobbiamo riconoscere a Bishop di aver dato voce a una necessità e a una urgenza che attraversava tutto il mondo dell’arte: quella di trovare nella pratica artistica riscontro di una contemporaneità sempre più segnata dall’impatto digitale. Se “Media Art Undone” è la “media art community” che fa autocritica e si dichiara pronta al proprio superamento, “Digital Divide” è il mondo dell’arte contemporanea che riconosce il proprio ritardo e invoca a gran voce artisti che affrontino “realmente la questione di cosa significhi vedere, pensare ed esprimere le proprie emozioni attraverso il digitale”.
Pur senza cadere in un eccessivo determinismo, è indubitabile che questo appello abbia aperto la strada, negli anni successivi, non tanto a un’inclusione della media art nel mondo dell’arte contemporanea mainstream, quanto a un assorbimento di quella che la curatrice Inke Arns, fra i partecipanti a “Media Art Undone”, chiamava “la sua forma specifica di contemporaneità”10, mano a mano che essa diventava la cifra distintiva della nostra contemporaneità. Ripercorrere le tracce di questo processo sarebbe aneddotico. Sono ormai numerosi gli artisti corrispondenti ai requisiti enunciati da Bishop che si sono costruiti una reputazione nel mondo dell’arte contemporanea, esponendo in biennali e musei, entrando in importanti collezioni pubbliche e private, collaborando con gallerie e istituzioni importanti. Il mercato ha imparato a gestire forme e linguaggi già considerati invendibili, e ha messo a punto dispositivi che consentono di fare i conti con la riproducibilità del digitale. Il crescente collezionismo di arte “media based”, e la crescente consapevolezza sociale della necessità di preservare le tecnologie e archiviare i dati, ha stimolato l’evoluzione accelerata di pratiche di “media art preservation”. Festival e biennali, centri di media art e musei d’arte contemporanea, riviste specializzate e generaliste gareggiano ormai nell’organizzare, spesso simultaneamente, mostre, simposi e approfondimenti sui temi e i linguaggi del momento, dalla realtà virtuale alla machine vision all’intelligenza artificiale. Alla ricerca dal basso sulle nuove tecnologie si sono affiancate iniziative che cercano il coinvolgimento di artisti mainstream, come Acute Art ha fatto per il VR con artisti come Jeff Koons, Anish Kapoor e Marina Abramovic.
In questo contesto, la media art ha mantenuto sostanzialmente intatta la propria infrastruttura istituzionale in un mondo dell’arte stratificato in cui persistono ancora temporalità diversificate e approcci critici e curatoriali più tradizionali. Come etichetta, mantiene una sua utilità in ambito museale, per indicare una specifica categoria di opere soggette ad analoghe problematiche di conservazione e archiviazione; ma si rivela ormai del tutto inadeguata a descrivere le pratiche trasversali di artisti che, seppur lavorando su nuclei tematici e su questioni appartenenti alla cultura dei media e utilizzando spesso software e linguaggi digitali, si muovono liberamente tra installazione, pittura, scultura, video e performance.
Quello che resta, ovviamente, è la centralità storica di una serie di pratiche artistiche che hanno accompagnato le culture digitali a diventare una componente cruciale e significativa della “condizione contemporanea.” Una centralità ancora in gran parte da riscoprire.
1 Geoff Cox, Jacob Lund, The Contemporary Condition: Introductory Thoughts on Contemporaneity & Contemporary Art, Sternberg Press, Berlin 2016.
2 Ivi, p. 27.
3 Ceci Moss, Expanded Internet Art: Twenty-First Century Artistic Practice and the Informational Milieu, Bloomsbury Publishing, London – New York 2019, p. 19.
4 Cf. Lauren Cornell, Ed Halter (a cura di), Mass Effect. Art and the Internet in the Twenty-first Century, MIT Press, Cambridge – London 2015.
5 Dall’archivio online di transmediale, cf. https://transmediale.de/content/panel-5-media-art-undone.
6 Olia Lialina, “Flat Against the Wall”, 2007, http://art.teleportacia.org/observation/flat_against_the_wall/.
7 Fonti: https://en.wikipedia.org/wiki/Facebook e https://www.statista.com/statistics/272014/global-social-networks-ranked-by-number-of-users/.
8 Fonte: https://www.bankmycell.com/blog/how-many-phones-are-in-the-world.
9 Claire Bishop, “Digital Divide: Contemporary Art and New Media”, in Artforum, September 2012, pp. 434 – 442. Online: https://www.artforum.com/print/201207/digital-divide-contemporary-art-and-new-media-31944.
10 Cf. Inke Arns, in “Media Art Undone”, February 3, 2007, online: http://www.mikro.in-berlin.de/wiki/tiki-index.php?page=MAU.